Il primo grande poeta della tecnologia: D. F. Wallace, “Da una parte e dall’altra”

Il racconto “Da una parte e dall’altra”, contenuto nella raccolta La ragazza dai capelli strani (MinimumFax, 2011), è scritto con una tecnica che verrà poi ampiamente sviluppata in Brevi interviste con uomini schifosi, in cui la narrazione viene completamente lasciata alla voce dei personaggi.
Grazie ad alcune conversazioni che entrambi, in momenti differenti, hanno con un terapeuta, cogliamo una coppia di studenti del college nel momento della rottura. Tutto il resto è lasciato all’interpretazione del lettore e non è detto che lettori diversi ricostruiscano la stessa identica vicenda (vi ricorda qualcosa?) o ne vengano coinvolti allo stesso modo. Basti dire che il professore dell’Università dell’Arizona, al quale Wallace presentò per la prima volta il racconto, lo giudicò verboso, lento e noioso.
Ma quella di Wallace era una provocazione alle teorie convenzionali dei suoi docenti sulla narrativa, tanto è vero che il protagonista del racconto, Bruce, viene rimproverato dal terapeuta in questi termini:

Renditi conto del disagio che provochi nel costruire una linea di digressione che ora sembra non avere origine né fine.
(…) la terapia narrativa per avere una qualche efficacia deve collocarsi e operare all’interno di uno spazio strutturato e definito.

Ma a Wallace, come a Bruce, interessava di più sperimentare con stili e linguaggi, piuttosto che focalizzarsi sul godimento del lettore.

David Foster Wallace - Guide Self Publishing e scrittura online | Storia Continua Allora, diciamo che l’arte esiste necessariamente in uno stato di tensione rispetto ai propri stessi standard. Che il logos impacciato e superfluo di tutti i tempi andati fa strada in ogni tempo a quello preciso, appropriato e soddisfacente. Che la poesia, come tutto ciò che viene organizzato e compreso sotto la voce Vita, è dinamica.
(…) E’ qui. E’ ora. Le bellezze prossime venture saranno e devono essere nuove; fibre di splendore che luccicano in matrici estetiche al distendersi di un’alba di sodio. Quello che ci tocca e così facendo ci indirizza è ciò che ha un’applicazione. Sento incombere l’arrivo di un’ondata di grande pulizia, un’imminente precisione (…)
Sento l’odore del cambiamento. Una nuova era e una nuova concezione della bellezza.
Basta con i concetti unioggettivi, le contemplazioni.
Basta con le qualità. Basta con le metafore.
Elettronica al plasma, sistemi su larga scala, amplificazione delle operazioni.

E’ il 1989 quando esce “La ragazza dai capelli strani”, eppure Wallace ha già chiaro quali tipi di cambiamenti attendono il nostro modo di comunicare con l’avvento della tecnologia e lui è intenzionato ad essere “il primo grande poeta della tecnologia”.

La sua tesi è un poema epico sui sistemi variabili di trasferimento delle informazioni e dell’energia.
E’ convinto che l’arte della letteratura col passare del tempo diventerà progressivamente sempre più matematica e tecnica. Dice che le parole in quanto “significanti correlativi” stanno appassendo.

Mi diceva che la vera poesia fra un po’ non si farà più con le parole. Diceva che la bellezza glaciale della perfetta significazione dei simboli non verbali inventati dall’uomo e dalla loro relazione attraverso le regole su cui ci si è messi d’accordo arriverà pian piano a rimpiazzare prima la forma e poi la materia della poesia. Dice che sta morendo un’epoca, e che lui ne sente il rantolo.

Dice che le unità poetiche che alludono ed evocano e chiamano a raccolta e sono variamente limitate dalla particolare esperienza e sensibilità dei singoli poeti e lettori cederanno il passo a simboli che al tempo stesso sono e rappresentano quello a cui si riferiscono; che sia il limite sia l’infinità del reale si possono esprimere meglio con assiomi, segni e funzioni.

Fin qui nulla di sconvolgente, insomma, non staremmo qui a parlare di Wallace se non fosse stato così innovativo nelle sue teorie e visionario. No, il vero colpo di genio sta nel modo in cui decide di concludere questo breve racconto (SPOILER ALERT): Bruce ammetterà che le notti di fronte al riflesso del processore gli hanno “in qualche modo sparato alla testa” e per riprendersi si rifugerà nella casa di due vecchi zii. Qui sarà messo a dura prova dalla riparazione dei fornelli di una cucina difettosa.

Il lavoro che mi interessa si fa con una matita e un pezzo di carta. Qualche rara volta con una calcolatrice. All’avanguardia dell’ingegneria elettronica, quasi tutte le questioni interessanti si possono risolvere mediante la manipolazione di variabili. Non sono mai stato bocciato a un esame, neanche una volta. Mai. E a quanto pare ho rotto questa povera stronzissima cucina.

Bruce è un laureato del MIT, eppure lo vediamo andare nel panico di fronte ad un groviglio di fili e bulloni. Vi assicuro che la scena fa sorridere, ma con un pizzico di amarezza, quella che solo le grandi scene comiche sanno in fondo celare, che è poi la vera molla che porta a riflettere: non siamo diventati un po’ tutti come Bruce? Dei grandi esperti e poeti davanti allo schermo, ma incapaci di riallacciare i fili della realtà? Se tutto finisse, se tutta la tecnologia andasse in tilt un bel giorno, cosa saremmo in grado di ricostruire concretamente con le nostre mani?

http://www.kungfugrippe.com/post/131728457539/cause-the-technology-is-just-gonna-get-better-and

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